“Allora, OK Andre ?”
Filippo ha appena accorciato la corda tra noi, mi faccio passare un paio di giri sulla spalla e poi verifico la chiusura del moschettone nell’asola.
Tra noi ci saranno adesso si e no cinquanta centimetri. Così possiamo passare correndo senza restare pericolosamente lontani. Mi tocco il laccetto del casco sotto al mento, poi guardo in alto…ancora sassi… guarda quanti ne vengono giù, meno male che questi sono piccoli…altrimenti avremmo sentito urlare da sopra “rock” o qualunque altra cosa in qualunque altra lingua, tanto si sa di cosa si parla, l’importante è farsi sentire bene da chi sta sotto.
Monte Bianco, versante francese, via normale dell’Aiguille du Gouter. Alla fine ci siamo, eccoci all’ingresso del Grand Couloir, il canalone noto per il persistente rischio di essere bersagliati dalle pietre scaricate dagli alpinisti che salgono e scendono sulle sue sponde e dalle frane naturali provocate dal ritiro del ghiaccio che in passato ne ricopriva il fondo, trattenendo le pietre.
Guardo il cavo di assicurazione d’acciaio, tanto alto sopra di noi e tanto inutile…magari a inizio stagione, con il canalone completamente innevato, ma oggi non ci serve proprio a nulla.
“Andre ?” Respiro.
“OK Fil, via.”
Partiamo, venti forse venticinque metri di corsa con i ramponi ai piedi un po’ su ghiaccio un po’ su sassi e terriccio, con le orecchie ben tese a sentire ogni rumore da sopra. Corro, quasi in apnea, cercando di guardare ogni tanto a monte. Se arriva qualcosa di grosso dobbiamo muoverci insieme o accelerando o rallentando, ma insieme perché siamo legati molto vicini… Dai che siamo quasi fuori…sento terriccio cadere e piccoli sassi che mi sfiorano le gambe, speriamo non arrivi nulla di grosso dopo.
Raggiungiamo la spalla rocciosa. Guardo in alto e vedo la parete quasi verticale dell’Aiguille du Gouter che ora ci attende. Posso distinguere i caschi colorati di altre cordate snodarsi sulla via.
Lassù, ancora così tremendamente piccolo, vedo risplendere il luccichio del tetto del rifugio.
“Brava Fede. Vedi, qui siamo noi, dove c’è l’omino, e questa tratteggiata è tutta la strada che abbiamo fatto…”
“Come Pollicino ? Guarda papà, abbiamo lasciato dietro di noi i sassolini per poter tornare indietro se ci perdiamo…”
Guardo il display del mio GPS. La funzione si chiama trackback e in effetti è grazie alla memorizzazione della posizione di quei “sassolini elettronici” che il GPS ti può riportare a casa. Quante volte, nelle tue salite in solitaria, ne hai approfittato per uscire dai casini, vero Andrea ? Federica non ha ancora sei anni, e mi guarda interrogativa e desiderosa di una risposta come solo i bimbi dei quell’età sanno fare.
“Sì Fede, proprio come Pollicino”. “E allora papà, questa è la mia montagna !”
In effetti siamo su un panettone erboso a neanche 2.000 m di altezza, però il piccolo rilievo – in funzione del suo isolamento – risulta chiaramente quotato sulla carta, seppur privo di nome.
Inserisco nel GPS un nuovo way-point in corrispondenza della posizione in cui ci troviamo. “La Cima di Federica, ti piace Fede ? La chiameremo così, OK ?”
“Bello ! E ci torneremo grazie al tuo computerino, papà.”GPS = “computerino che ti aiuta a fare come Pollicino”. Beh, direi che la sostanza c’è.Federica si siede felice assaporando il suo succo di frutta.
“Papà, posso venire con te sul Monte Bianco?” Il Monte Bianco?! E cosa c’entra adesso il Bianco ? Forse ultimamente ne ho parlato troppo in casa.
“Fede, non so se ci andrò mai sul Bianco. E’ una montagna molto alta e bisogna avere tanta, tanta fortuna per salirla. E comunque tu sei ancora piccola, per salire così in alto devi aspettare di essere un po’ cresciuta…e poi questa cima dove siamo adesso è bellissima no ? Non sei contenta di essere qui con me ?”
“Cresciuta quanto ? Io sono già grande !”
“Beh, ho letto sulla rivista del CAI che sarebbe meglio aver compiuto almeno 14 anni…”
Ecco, ora ha abbassato lo sguardo…scommetto che sta contando quanti anni le mancano…
“Ehi Fede, a cosa pensi…non è che ti sei dispiaciuta, vero ?” “No papà. Stavo solo guardando questo fiorellino. Guarda com’è bello.”
Adesso tocca a me stare attento a non muovere sassi.
C’è gente sotto che si appresta ad attraversare il Couloir, devo stare molto attento e concentrato. Nessun passo falso, mi devo muovere lentamente e senza scatti, guardando bene dove metto i piedi. Beccarsi un sasso in testa non è bello, ma pure essere causa di un sasso in testa ad altri non mi entusiasma certo.
“Attento Andre, non così brusco. Muoviti con più regolarità, altrimenti ti stanchi troppo.”
E infatti, ecco subito un bel crampo in piena coscia. “Un attimo Fil, ho le gambe come due macigni.”
La salita è bella ripida, per fortuna fino ad ora le condizioni si sono rivelate ideali, non c’è ghiaccio e gli appoggi per i piedi sono ottimi. Tre settimane fa, sulla normale del Dom de Mischabel, ho decisamente visto di peggio. Mi ricordo quel passaggio di terzo, e poi quel traverso nel vuoto…
“OK Fil, andiamo.”
Ecco, ora cominciano le corde fisse. Conosco questa via a memoria per averla letta e riletta centinaia di volte sulle relazioni. Certo che da qui è davvero “in piedi”…guardo il tetto del rifugio, ora ci siamo proprio sotto…un’occhiata all’altimetro, siamo a poco più di 3.700 metri, ancora cento metri di parete e ci siamo.
Accarezzo con la mano il cavo d’acciaio. La via è ottimamente attrezzata, solo in quest’ultimo tratto decisamente verticale. Meglio non guardare giù. Chissà domani a scendere.
Filippo mi dà una voce “Tutto OK, Andre ?”
Ma come fa ? Non appena esito se ne accorge subito anche se è davanti a me, senza nemmeno guardarmi, solo magari per qualche tensione nella corda che ci lega causata da un mio ritardato movimento.
Mi piace salire con Filippo, mi piace sentire questo affiatamento.
“OK, Fil”
Gli ultimi venti metri. Ora c’è anche ghiaccio, ma non possiamo certo mettere i ramponi qui. Mi tiro su di braccia e sono sul terrazzino del rifugio Gouter, a 3.817 m. Da qui alla vetta, “solo” 1.000 m di dislivello.
“Guarda papà, ti ho fatto un disegno.”
Il foglio formato A4 scivola dalle sue manine alle mie. Il disegno è accuratamente colorato a pennarello, e c’è pure una specie di dedica in stampatello maiuscolo: “Papà Andrea. Federica.”
“Che bello Fede, l’hai fatto proprio per me ?”
“Si papà. Questa sono io, e questo che mi tiene per mano sei tu.”
“Caspita Fede, è bellissimo. E che bella montagna hai disegnato. Vedo che ci stiamo salendo insieme.”
“Vedi la neve papà ? Quello è il Monte Bianco. Siccome tu dici che io sono troppo piccola per venire con te, allora se tu porti questo disegno sulla cima è come se ci fossi arrivata anche io, vero ? E’ vero che c’è tanta neve sul Monte Bianco papà ? E’ per quello che si chiama così, vero ?”
“Si Fede, c’è tanta neve lassù. E’ una neve stupenda, non si scioglie mai. E’ neve di ghiacciaio, cioè neve eterna.”
Soddisfatta della mia risposta, la guardo tornare nella sua stanza saltellando. Arrotolo il disegno e lo fermo con un piccolo nastrino rosso. Così quel giorno, nello zaino, non si rovinerà.
“Buongiorno, apriamo il giornale annunciando che stamane, verso le 3.15, si è verificato il distacco di un seracco dalla spalla del Mont Blanc du Tacul, su una delle vie normali di salita del versante francese del Monte Bianco. Il distacco ha provocato una valanga di circa 200 m di fronte, che si è abbattuta sulle cordate in quel momento in transito. Otto gli alpinisti dispersi, tra cui due guide alpine.”
Sono ancora in pigiama, ho Leonardo in braccio e ho appena finito di dargli il biberon. Spengo di corsa la TV, prima che Fiore possa sentire. Leo ride felice con il pancino ben pieno, lo metto per terra per farlo sgambettare, e mi siedo.
Dio mio, io dovevo essere lì ! In quell’ora, in quel luogo !! Solo un dubbio all’ultimo momento sul meteo ci ha fatto spostare la salita a Martedì, dal Gouter e non più dal Cosmiques.
Sicuramente la valanga ha preso le prime cordate partite dal Rifugio, a quell’ora chi è già sotto la spalla del Tacul è gente che arriva in vetta bella diretta, cordate leggere e veloci, di gente ben allenata.
Ci saremmo trovati dentro in pieno. Li immagino svegliarsi in rifugio…conosco quell’atmosfera, il muoversi in quegli spazi ristretti, alla luce delle frontali. La colazione, l’imbrago, i ramponi e poi via, se si è fortunati sotto una bella stellata.
Saranno stati in cammino si è no da un’ora o poco più…non penso abbiano sentito poi un gran rumore, avranno avuto appena il tempo di percepire il freddo soffio dello spostamento d’aria provocato dalla valanga in arrivo. Un mare di neve e ghiaccio. Poi sarà stato solo silenzio.
Chiamo Fil, che non sa ancora nulla, perchè è ad arrampicare a Gressoney.
“Andre, tua moglie lo sa ?”
“No, devo trovare il momento giusto…spiegarle…che noi saliremo dal Gouter e che di là i seracchi non ci sono, che i pericoli oggettivi sono meno…spero capirà”.
Il problema è che nei prossimi giorni una marea di gente dirotterà sulla via del Gouter perché la via del Cosmiques resterà sicuramente chiusa per qualche tempo, tra soccorsi e rischio oggettivo che altri seracchi vengano giù.
Dovremo essere velocissimi, Fil ed io.
Salire il Couloir al mattino presto quando sarà ancora in ombra. E soprattutto il giorno dopo, di ritorno dalla vetta, riuscire ad essere fuori dal Couloir prima di tutti e prima che il sole riscaldi troppo il terreno, aumentando il rischio di rilascio di sassi.
“Fiore, ma quando l’hai saputo?”
“Oggi, dalla radio. Non ti ho detto nulla perché tu non me ne avevi ancora parlato.”
“Guarda Fiore, è tutto sotto controllo. Fil ed io azzardi non ne facciamo mai, lo sai bene no ?”
La guardo abbozzare un sorriso. Non vuole essere lei ad obbligarmi a non partire. Mi alzo da tavola, vado in camera e prendo quel disegno di Federica in cui ci ritrae insieme mentre saliamo su una montagna. E’ ancora arrotolato, con lo stesso nastrino rosso.
Non lo apro nemmeno, e lo inserisco così com’è nella tasca alta dello zaino, in modo che non si schiacci sotto il peso dell’imbrago, dei ramponi, del casco e di tutta l’attrezzatura.
Torno da lei, sta mettendo a letto Fede e Leo. Sa bene che ho già deciso e non ne parliamo più. Sa anche quanto ci tengo, alla fine un po’ mi capisce, in fin dei conti ci siamo proprio conosciuti in montagna, vent’anni fa.
Provo una grande riconoscenza per quel suo sorriso. Così silenzioso, così dolce.
“OK Andre ?”Le condizioni meteo sono perfette. Ci siamo appena imbragati fuori dal rifugio, la volta stellata come un’infinità pulsante sullo sfondo del chiarore diffuso della Via Lattea.“OK Fil.”
Partiamo tra i primi. Dietro il presepe di luci delle frontali delle altre cordate che salgono nella notte, e più sotto ancora le luci di Chamonix. I ramponi mordono il ghiaccio. Saliamo veloci, il nostro passo è quello ormai consolidato e provato nelle diverse salite di acclimatamento.
Maciniamo metri di dislivello regolari, fino alla prima tappa al Col du Gouter, a 4.240 m. Poi avanti, sempre alla luce delle forntali fino alla Capanna Vallot, un ricovero di emergenza a 4.362 m. Qui di solito la gente comincia a mollare, non reggendo la quota e soprattutto l’idea di quanto dislivello ci sia ancora da superare..
In effetti, davanti a noi ancora quasi 500 m fino alla vetta, che intanto si comincia a intravedere nel buio della notte. Distinguo ora chiaramente la via di salita, lungo la Cresta delle Bosses, toccando prima la Grande Bosse a 4.513 m, poi la Petite Bosse a 4.547 m, costeggiando quindi l’Eperon de la Tournette a 4.677 m per affrontare poi la sottile e aerea cresta finale, fino all’arrivo in vetta.
Intravedo l’immensità del ghiacciaio verso l’Aiguille du Midi. Sto salendo il Monte Bianco, il mio 27esimo quattromila, eppure un’immensità così riesce ancora a lasciarmi senza parole. Questa montagna è unica, ti schiaccia con le sue proporzioni, ti fa sentire un niente, ti fa sentire infinitamente piccolo.
Ripartiamo, lo stesso ritmo regolare, un passo dopo l’altro. Intanto ad est un bel chiarore rosso preannuncia l’approssimarsi dell’alba. Superiamo le Bosses e la Roccia delle Tournette. Quota 4.700, mi soffermo per un attimo a guardare sull’altimetro quest’altezza, prima d’oggi mai raggiunta.
Oscuriamo le frontali, ora non ci servono più.
Ancora 100 metri, gli ultimi. Ora il passo è più lento, la carenza d’ossigeno si comincia a sentire, anche se per fortuna l’allenamento e l’acclimatamento mi permettono di non soffrire alcun disturbo da quota.
Mi accorgo che sto contando i passi che mi separano dalla cima. Ad occhio e croce saranno un centinaio. Cammino e conto, conto e cammino, gli occhi fissi sugli scarponi di Filippo davanti a me, camminando sincronizzato sul suo passo.
99, 100, 101 passi…accidenti, c’è ancora un po’ di salita, siamo nel pieno della cresta finale, bella aerea anche se mai veramente difficile. A destra si precipita sul versante italiano, verso Courmayeur, a sinistra su quello francese, verso Chamonix.
Però…anche la cima è davvero bella sottile, mi aspettavo un panettone dalle foto viste, invece è una cresta neanche tanto larga. Ma è vero, ricordo di aver letto che la calotta sommitale del Bianco cambia forma a seconda degli anni.
Anche l’altezza è variabile, ora è tornata ad essere 4.810 m, dopo essersi attestata per qualche anno a 4.807 m. 150, 151, 152 passi…
Filippo si ferma. Non c’è più niente da salire.
Filippo si gira verso di me. Ci abbracciamo. “Grande Andre…sono contento…questa è la gioia più grande per una guida.”
“Grande Fil !”
Provo una gioia indescrivibile, tutte le vette che posso vedere sono più basse di noi, anche quelle dei più alti 4.000 che ho già salito – come il Dom nel gruppo dei Mischabel e le Punte Gnifetti e Zumstein nel Rosa, tutte sopra i 4.500 m.
Poi vedo l’ombra del Bianco che si staglia sulla Francia mentre il sole nasce dietro al Cervino.
Un silenzio assoluto, lo stesso che ho sentito quando alle 3.00 del mattino siamo partiti dal rifugio Gouter. Apro lo zaino e tiro fuori il disegno di Federica.
E’ così che Filippo mi fotografa.
Sono stato qui, ci sono stato con Fil. Ora dobbiamo scendere. Mi volto per un ultimo sguardo verso la vetta. Intravedo ancora le nostre orme nel ghiaccio. Poi un lieve soffio di vento solleva un po’ di polvere. E le ricopre.
di Andrea Olivotto