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Siamo entusiasti di annunciare la nostra nuova partnership con Global Rescue, leader mondiale nei servizi di protezione per i viaggi. La nostra priorità assoluta è garantire la sicurezza e il benessere dei nostri clienti mentre intraprendono le nostre avventure.
Grazie alla collaborazione con Global Rescue, SummitGuides può offrire ora ai propri clienti il massimo livello di protezione, con accesso a servizi medici, di soccorso, gestione dei rischi di viaggio e intervento in caso di necessità.
Gli imprevisti possono verificarsi anche nelle spedizioni pianificate con cura maniacale e i relativi costi di evacuazione possono diventare molto elevati. Con un'assicurazione Global Rescue i nostri clienti possono ora stare tranquilli, sapendo di essere protetti da risorse e personale di emergenza di altissimo livello.
Il team di Global Rescue ha un'esperienza comprovata da numerosi anni di attività, avendo supportato più di un milione di membri in tutto il mondo, fornendo assistenza affidabile quando accadono eventi imprevisti.
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Siamo entusiasti di annunciare che SummitGuides ha ufficialmente stretto una partnership con Leave No Trace, leader globale nella conservazione e sostenibilità ambientale! Questa collaborazione riflette il nostro profondo impegno nel preservare la bellezza naturale delle montagne e dei paesaggi che costituiscono lo sfondo delle nostre avventure.
La nostra priorità è sempre stata garantire esperienze indimenticabili ai nostri clienti, minimizzando l'impatto sull'ambiente. Collaborando con Leave No Trace, intensifichiamo i nostri sforzi per proteggere il pianeta, utilizzando il loro collaudato framework di educazione, formazione e gestione responsabile per contribuire a plasmare un futuro sostenibile per le attività all'aperto.
Perché Leave No Trace? Leave No Trace è un'organizzazione no-profit 501(c)(3) che opera in tutti e 50 gli stati degli Stati Uniti e in oltre 100 paesi in tutto il mondo. La loro missione è chiara: proteggere la natura sfruttando il potere della scienza, dell'educazione inclusiva e della gestione pratica. I loro programmi mirano a dotare gli appassionati di attività all'aperto delle conoscenze e degli strumenti necessari per godere e salvaguardare l'ambiente. Al centro del loro messaggio c'è una responsabilità condivisa - che tu sia in una breve escursione o stia intraprendendo una spedizione alpina, le tue azioni contano.
Questa partnership è la scelta perfetta per SummitGuides. Le montagne sono il nostro ufficio, il nostro parco giochi e il nostro santuario, e crediamo nel rispettarle e preservarle per le generazioni future.
Che tu ci accompagni per un'avventura di sci alpinismo nella Silvretta, un'ascesa al Cervino o un trekking attraverso il Monte Rosa, puoi essere certo che non ci concentriamo solo sulla tua esperienza, ma anche sulla riduzione del nostro impatto ambientale.
Cosa significa questo per i nostri clienti? Unendoci a Leave No Trace, siamo orgogliosi di adottare le loro linee guida in ogni aspetto dei nostri viaggi. Le nostre guide integreranno i principi di Leave No Trace nelle loro briefing e itinerari, garantendo che ogni cliente lasci le montagne intatte come le ha trovate. Dalle pratiche di gestione dei rifiuti al rispetto della fauna selvatica e alla minimizzazione dell'erosione dei sentieri, i nostri clienti acquisiranno consigli pratici e concreti su come diventare custodi dell'ambiente.
Apprendendo e praticando questi principi, insieme possiamo proteggere i luoghi che tanto apprezziamo. Questa partnership ti dà la possibilità, in quanto nostro cliente, non solo di godere delle attività all'aperto, ma anche di prendere misure attive per preservarle.
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“Allora, OK Andre ?”
Filippo ha appena accorciato la corda tra noi, mi faccio passare un paio di giri sulla spalla e poi verifico la chiusura del moschettone nell’asola.
Tra noi ci saranno adesso si e no cinquanta centimetri. Così possiamo passare correndo senza restare pericolosamente lontani. Mi tocco il laccetto del casco sotto al mento, poi guardo in alto…ancora sassi… guarda quanti ne vengono giù, meno male che questi sono piccoli…altrimenti avremmo sentito urlare da sopra “rock” o qualunque altra cosa in qualunque altra lingua, tanto si sa di cosa si parla, l’importante è farsi sentire bene da chi sta sotto.
Monte Bianco, versante francese, via normale dell’Aiguille du Gouter. Alla fine ci siamo, eccoci all’ingresso del Grand Couloir, il canalone noto per il persistente rischio di essere bersagliati dalle pietre scaricate dagli alpinisti che salgono e scendono sulle sue sponde e dalle frane naturali provocate dal ritiro del ghiaccio che in passato ne ricopriva il fondo, trattenendo le pietre.
Guardo il cavo di assicurazione d’acciaio, tanto alto sopra di noi e tanto inutile…magari a inizio stagione, con il canalone completamente innevato, ma oggi non ci serve proprio a nulla.
“Andre ?” Respiro.
“OK Fil, via.”
Partiamo, venti forse venticinque metri di corsa con i ramponi ai piedi un po’ su ghiaccio un po’ su sassi e terriccio, con le orecchie ben tese a sentire ogni rumore da sopra. Corro, quasi in apnea, cercando di guardare ogni tanto a monte. Se arriva qualcosa di grosso dobbiamo muoverci insieme o accelerando o rallentando, ma insieme perché siamo legati molto vicini… Dai che siamo quasi fuori…sento terriccio cadere e piccoli sassi che mi sfiorano le gambe, speriamo non arrivi nulla di grosso dopo.
Raggiungiamo la spalla rocciosa. Guardo in alto e vedo la parete quasi verticale dell’Aiguille du Gouter che ora ci attende. Posso distinguere i caschi colorati di altre cordate snodarsi sulla via.
Lassù, ancora così tremendamente piccolo, vedo risplendere il luccichio del tetto del rifugio.

“Brava Fede. Vedi, qui siamo noi, dove c’è l’omino, e questa tratteggiata è tutta la strada che abbiamo fatto…”
“Come Pollicino ? Guarda papà, abbiamo lasciato dietro di noi i sassolini per poter tornare indietro se ci perdiamo…”
Guardo il display del mio GPS. La funzione si chiama trackback e in effetti è grazie alla memorizzazione della posizione di quei “sassolini elettronici” che il GPS ti può riportare a casa. Quante volte, nelle tue salite in solitaria, ne hai approfittato per uscire dai casini, vero Andrea ? Federica non ha ancora sei anni, e mi guarda interrogativa e desiderosa di una risposta come solo i bimbi dei quell’età sanno fare.
“Sì Fede, proprio come Pollicino”. “E allora papà, questa è la mia montagna !”
In effetti siamo su un panettone erboso a neanche 2.000 m di altezza, però il piccolo rilievo – in funzione del suo isolamento – risulta chiaramente quotato sulla carta, seppur privo di nome.
Inserisco nel GPS un nuovo way-point in corrispondenza della posizione in cui ci troviamo. “La Cima di Federica, ti piace Fede ? La chiameremo così, OK ?”
“Bello ! E ci torneremo grazie al tuo computerino, papà.”GPS = “computerino che ti aiuta a fare come Pollicino”. Beh, direi che la sostanza c’è.Federica si siede felice assaporando il suo succo di frutta.
“Papà, posso venire con te sul Monte Bianco?” Il Monte Bianco?! E cosa c’entra adesso il Bianco ? Forse ultimamente ne ho parlato troppo in casa.
“Fede, non so se ci andrò mai sul Bianco. E’ una montagna molto alta e bisogna avere tanta, tanta fortuna per salirla. E comunque tu sei ancora piccola, per salire così in alto devi aspettare di essere un po’ cresciuta…e poi questa cima dove siamo adesso è bellissima no ? Non sei contenta di essere qui con me ?”
“Cresciuta quanto ? Io sono già grande !”
“Beh, ho letto sulla rivista del CAI che sarebbe meglio aver compiuto almeno 14 anni…”
Ecco, ora ha abbassato lo sguardo…scommetto che sta contando quanti anni le mancano…
“Ehi Fede, a cosa pensi…non è che ti sei dispiaciuta, vero ?” “No papà. Stavo solo guardando questo fiorellino. Guarda com’è bello.”

Adesso tocca a me stare attento a non muovere sassi.
C’è gente sotto che si appresta ad attraversare il Couloir, devo stare molto attento e concentrato. Nessun passo falso, mi devo muovere lentamente e senza scatti, guardando bene dove metto i piedi. Beccarsi un sasso in testa non è bello, ma pure essere causa di un sasso in testa ad altri non mi entusiasma certo.
“Attento Andre, non così brusco. Muoviti con più regolarità, altrimenti ti stanchi troppo.”
E infatti, ecco subito un bel crampo in piena coscia. “Un attimo Fil, ho le gambe come due macigni.”
La salita è bella ripida, per fortuna fino ad ora le condizioni si sono rivelate ideali, non c’è ghiaccio e gli appoggi per i piedi sono ottimi. Tre settimane fa, sulla normale del Dom de Mischabel, ho decisamente visto di peggio. Mi ricordo quel passaggio di terzo, e poi quel traverso nel vuoto…
“OK Fil, andiamo.”
Ecco, ora cominciano le corde fisse. Conosco questa via a memoria per averla letta e riletta centinaia di volte sulle relazioni. Certo che da qui è davvero “in piedi”…guardo il tetto del rifugio, ora ci siamo proprio sotto…un’occhiata all’altimetro, siamo a poco più di 3.700 metri, ancora cento metri di parete e ci siamo.
Accarezzo con la mano il cavo d’acciaio. La via è ottimamente attrezzata, solo in quest’ultimo tratto decisamente verticale. Meglio non guardare giù. Chissà domani a scendere.
Filippo mi dà una voce “Tutto OK, Andre ?”
Ma come fa ? Non appena esito se ne accorge subito anche se è davanti a me, senza nemmeno guardarmi, solo magari per qualche tensione nella corda che ci lega causata da un mio ritardato movimento.
Mi piace salire con Filippo, mi piace sentire questo affiatamento.
“OK, Fil”
Gli ultimi venti metri. Ora c’è anche ghiaccio, ma non possiamo certo mettere i ramponi qui. Mi tiro su di braccia e sono sul terrazzino del rifugio Gouter, a 3.817 m. Da qui alla vetta, “solo” 1.000 m di dislivello.

“Guarda papà, ti ho fatto un disegno.”
Il foglio formato A4 scivola dalle sue manine alle mie. Il disegno è accuratamente colorato a pennarello, e c’è pure una specie di dedica in stampatello maiuscolo: “Papà Andrea. Federica.”
“Che bello Fede, l’hai fatto proprio per me ?”
“Si papà. Questa sono io, e questo che mi tiene per mano sei tu.”
“Caspita Fede, è bellissimo. E che bella montagna hai disegnato. Vedo che ci stiamo salendo insieme.”
“Vedi la neve papà ? Quello è il Monte Bianco. Siccome tu dici che io sono troppo piccola per venire con te, allora se tu porti questo disegno sulla cima è come se ci fossi arrivata anche io, vero ? E’ vero che c’è tanta neve sul Monte Bianco papà ? E’ per quello che si chiama così, vero ?”
“Si Fede, c’è tanta neve lassù. E’ una neve stupenda, non si scioglie mai. E’ neve di ghiacciaio, cioè neve eterna.”
Soddisfatta della mia risposta, la guardo tornare nella sua stanza saltellando. Arrotolo il disegno e lo fermo con un piccolo nastrino rosso. Così quel giorno, nello zaino, non si rovinerà.
“Buongiorno, apriamo il giornale annunciando che stamane, verso le 3.15, si è verificato il distacco di un seracco dalla spalla del Mont Blanc du Tacul, su una delle vie normali di salita del versante francese del Monte Bianco. Il distacco ha provocato una valanga di circa 200 m di fronte, che si è abbattuta sulle cordate in quel momento in transito. Otto gli alpinisti dispersi, tra cui due guide alpine.”
Sono ancora in pigiama, ho Leonardo in braccio e ho appena finito di dargli il biberon. Spengo di corsa la TV, prima che Fiore possa sentire. Leo ride felice con il pancino ben pieno, lo metto per terra per farlo sgambettare, e mi siedo.
Dio mio, io dovevo essere lì ! In quell’ora, in quel luogo !! Solo un dubbio all’ultimo momento sul meteo ci ha fatto spostare la salita a Martedì, dal Gouter e non più dal Cosmiques.
Sicuramente la valanga ha preso le prime cordate partite dal Rifugio, a quell’ora chi è già sotto la spalla del Tacul è gente che arriva in vetta bella diretta, cordate leggere e veloci, di gente ben allenata.
Ci saremmo trovati dentro in pieno. Li immagino svegliarsi in rifugio…conosco quell’atmosfera, il muoversi in quegli spazi ristretti, alla luce delle frontali. La colazione, l’imbrago, i ramponi e poi via, se si è fortunati sotto una bella stellata.
Saranno stati in cammino si è no da un’ora o poco più…non penso abbiano sentito poi un gran rumore, avranno avuto appena il tempo di percepire il freddo soffio dello spostamento d’aria provocato dalla valanga in arrivo. Un mare di neve e ghiaccio. Poi sarà stato solo silenzio.
Chiamo Fil, che non sa ancora nulla, perchè è ad arrampicare a Gressoney.
“Andre, tua moglie lo sa ?”
“No, devo trovare il momento giusto…spiegarle…che noi saliremo dal Gouter e che di là i seracchi non ci sono, che i pericoli oggettivi sono meno…spero capirà”.
Il problema è che nei prossimi giorni una marea di gente dirotterà sulla via del Gouter perché la via del Cosmiques resterà sicuramente chiusa per qualche tempo, tra soccorsi e rischio oggettivo che altri seracchi vengano giù.
Dovremo essere velocissimi, Fil ed io.
Salire il Couloir al mattino presto quando sarà ancora in ombra. E soprattutto il giorno dopo, di ritorno dalla vetta, riuscire ad essere fuori dal Couloir prima di tutti e prima che il sole riscaldi troppo il terreno, aumentando il rischio di rilascio di sassi.

“Fiore, ma quando l’hai saputo?”
“Oggi, dalla radio. Non ti ho detto nulla perché tu non me ne avevi ancora parlato.”
“Guarda Fiore, è tutto sotto controllo. Fil ed io azzardi non ne facciamo mai, lo sai bene no ?”
La guardo abbozzare un sorriso. Non vuole essere lei ad obbligarmi a non partire. Mi alzo da tavola, vado in camera e prendo quel disegno di Federica in cui ci ritrae insieme mentre saliamo su una montagna. E’ ancora arrotolato, con lo stesso nastrino rosso.
Non lo apro nemmeno, e lo inserisco così com’è nella tasca alta dello zaino, in modo che non si schiacci sotto il peso dell’imbrago, dei ramponi, del casco e di tutta l’attrezzatura.
Torno da lei, sta mettendo a letto Fede e Leo. Sa bene che ho già deciso e non ne parliamo più. Sa anche quanto ci tengo, alla fine un po’ mi capisce, in fin dei conti ci siamo proprio conosciuti in montagna, vent’anni fa.
Provo una grande riconoscenza per quel suo sorriso. Così silenzioso, così dolce.
“OK Andre ?”Le condizioni meteo sono perfette. Ci siamo appena imbragati fuori dal rifugio, la volta stellata come un’infinità pulsante sullo sfondo del chiarore diffuso della Via Lattea.“OK Fil.”
Partiamo tra i primi. Dietro il presepe di luci delle frontali delle altre cordate che salgono nella notte, e più sotto ancora le luci di Chamonix. I ramponi mordono il ghiaccio. Saliamo veloci, il nostro passo è quello ormai consolidato e provato nelle diverse salite di acclimatamento.
Maciniamo metri di dislivello regolari, fino alla prima tappa al Col du Gouter, a 4.240 m. Poi avanti, sempre alla luce delle forntali fino alla Capanna Vallot, un ricovero di emergenza a 4.362 m. Qui di solito la gente comincia a mollare, non reggendo la quota e soprattutto l’idea di quanto dislivello ci sia ancora da superare..
In effetti, davanti a noi ancora quasi 500 m fino alla vetta, che intanto si comincia a intravedere nel buio della notte. Distinguo ora chiaramente la via di salita, lungo la Cresta delle Bosses, toccando prima la Grande Bosse a 4.513 m, poi la Petite Bosse a 4.547 m, costeggiando quindi l’Eperon de la Tournette a 4.677 m per affrontare poi la sottile e aerea cresta finale, fino all’arrivo in vetta.

Intravedo l’immensità del ghiacciaio verso l’Aiguille du Midi. Sto salendo il Monte Bianco, il mio 27esimo quattromila, eppure un’immensità così riesce ancora a lasciarmi senza parole. Questa montagna è unica, ti schiaccia con le sue proporzioni, ti fa sentire un niente, ti fa sentire infinitamente piccolo.
Ripartiamo, lo stesso ritmo regolare, un passo dopo l’altro. Intanto ad est un bel chiarore rosso preannuncia l’approssimarsi dell’alba. Superiamo le Bosses e la Roccia delle Tournette. Quota 4.700, mi soffermo per un attimo a guardare sull’altimetro quest’altezza, prima d’oggi mai raggiunta.
Oscuriamo le frontali, ora non ci servono più.
Ancora 100 metri, gli ultimi. Ora il passo è più lento, la carenza d’ossigeno si comincia a sentire, anche se per fortuna l’allenamento e l’acclimatamento mi permettono di non soffrire alcun disturbo da quota.
Mi accorgo che sto contando i passi che mi separano dalla cima. Ad occhio e croce saranno un centinaio. Cammino e conto, conto e cammino, gli occhi fissi sugli scarponi di Filippo davanti a me, camminando sincronizzato sul suo passo.
99, 100, 101 passi…accidenti, c’è ancora un po’ di salita, siamo nel pieno della cresta finale, bella aerea anche se mai veramente difficile. A destra si precipita sul versante italiano, verso Courmayeur, a sinistra su quello francese, verso Chamonix.
Però…anche la cima è davvero bella sottile, mi aspettavo un panettone dalle foto viste, invece è una cresta neanche tanto larga. Ma è vero, ricordo di aver letto che la calotta sommitale del Bianco cambia forma a seconda degli anni.
Anche l’altezza è variabile, ora è tornata ad essere 4.810 m, dopo essersi attestata per qualche anno a 4.807 m. 150, 151, 152 passi…
Filippo si ferma. Non c’è più niente da salire.

Filippo si gira verso di me. Ci abbracciamo. “Grande Andre…sono contento…questa è la gioia più grande per una guida.”
“Grande Fil !”
Provo una gioia indescrivibile, tutte le vette che posso vedere sono più basse di noi, anche quelle dei più alti 4.000 che ho già salito – come il Dom nel gruppo dei Mischabel e le Punte Gnifetti e Zumstein nel Rosa, tutte sopra i 4.500 m.
Poi vedo l’ombra del Bianco che si staglia sulla Francia mentre il sole nasce dietro al Cervino.
Un silenzio assoluto, lo stesso che ho sentito quando alle 3.00 del mattino siamo partiti dal rifugio Gouter. Apro lo zaino e tiro fuori il disegno di Federica.
E’ così che Filippo mi fotografa.
Sono stato qui, ci sono stato con Fil. Ora dobbiamo scendere. Mi volto per un ultimo sguardo verso la vetta. Intravedo ancora le nostre orme nel ghiaccio. Poi un lieve soffio di vento solleva un po’ di polvere. E le ricopre.

di Andrea Olivotto

Quota 4810


È buio sul ghiacciaio.
Finisco di allacciare i miei ramponi e mi viene in mente il titolo del libro di Hermann Buhl—la salita epica del Nanga Parbat, la "montagna nuda", perché le sue pareti sono così ripide che neanche la neve riesce a restare attaccata.
Le tre del mattino, Obere Plattje a 3.277 metri, proprio dove inizia il Ghiacciaio del Monte Rosa.
Io e Fil abbiamo lasciato il confortevole Rifugio Monte Rosa circa quaranta minuti fa. Non possiamo più vederlo, nascosto dietro la spalla rocciosa che abbiamo appena attraversato. Sotto, il bagliore intermittente delle lampade frontali delle poche cordate che ci seguono sul percorso appare e scompare al ritmo dei loro passi.
Alzo gli occhi verso la notte e la luce della mia lampada frontale si dissolve dolcemente nel nulla, non avendo più nulla su cui riflettersi.
È una notte senza luna, con un'infinità di stelle sopra di noi. Ce ne sono così tante che le costellazioni principali non si distinguono più.
Sorrido al pensiero dello sforzo che gli esseri umani hanno fatto nel tempo per organizzare quel caos primordiale in forme di fantasia, la visione limitata del cielo come un insieme di costellazioni. Molto più bello così stasera—così tante stelle che nessuno oserebbe provare a imporvi un ordine.
La corda tra me e Fil è lunga, con un paio di nodi nel mezzo, mentre ci avviciniamo a questa sezione del ghiacciaio altamente crepacciata, cercando il miglior percorso.
Data la distanza tra noi, i fasci delle nostre lampade frontali tagliano l’oscurità separatamente. Faccio del mio meglio per aiutare illuminando dove potrebbe essere più utile… ma il problema è, dove guardare? Dove andare?
A sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra. Avanziamo, ci fermiamo, torniamo indietro, camminando lungo piccoli crinali tra crepacci aperti, attraversando alcuni ponti di neve. Nonostante l'esplorazione di ieri sera e la nostra conversazione con il gestore del rifugio, studiando le foto del percorso, il sentiero è semplicemente invisibile in questa oscurità, e Fil ha le mani piene.
Proviamo di nuovo, torniamo indietro e tentiamo di nuovo il lato destro.
Sotto, due lampade frontali si avvicinano, si stanno muovendo verso di noi. Ci hanno visti zigzagare attraverso il buio, cercando un percorso che non esiste, e ci stanno seguendo.
Fil sente la strada giusta — fantastico! Ora posso vedere anche le impronte nella neve, siamo diretti nella direzione giusta. Segno un waypoint sul GPS, nel caso ne avessimo bisogno per il ritorno.
Finalmente, liberi da questo labirinto di ghiaccio, acceleriamo verso l’alto, dove il cielo è senza stelle, bloccato dalla silhouette nera del Nordend a sinistra e del Dufour a destra.
In mezzo, alcune stelle si abbassano nel nostro campo visivo—è il Silbersattel a 4.517 metri, la “Sella d’Argento”.
Bel nome, un po' magico, proprio come quello sul Nanga Parbat descritto da Buhl.
Ed è ancora buio sul ghiacciaio.
Lontano a destra del Ghiacciaio del Monte Rosa, il sentiero ci ha portato sotto il Sattel a un'altitudine di 4.359 metri, ed è ora chiaro che siamo sulla rotta per la Cresta Ovest del Dufour.
Il Dufour. Alla fine, ci ha attratti, come una calamita.
Potremmo ancora rientrare nel sentiero verso il Nordend, ma a questo punto, Fil suggerisce la possibilità di tentare direttamente la vetta più alta del Monte Rosa, 4.632 metri.
Conosciamo le condizioni del percorso e il tempo sono perfetti, ma questa volta, sento di non essere acclimatato abbastanza. Una volta sopra i 4.000 metri, faccio fatica con la salita. "Fil, non sono sicuro. Per il Dufour via la cresta, devo essere al meglio... forse è meglio tornare indietro e dirigersi verso il Nordend, o attraversare per rientrare nel sentiero più in alto..." "Dai, Andre, ce la puoi fare! Quante volte l'abbiamo fatto? Fidati di me... ti conosco. Fidati di me."
Mentre ascolto Fil, appoggiandomi leggermente sulla mia piccozza, voglio superare questa esitazione, spingere un limite, il livello di fiducia che la mia mente ha impostato per il Dufour, una certa condizione fisica, che ora sento di non avere.
O forse ho paura di non averla, non lo so nemmeno più.
Quasi senza accorgermene, ricominciamo... i primi passi sembrano un salto nel buio. Poi il pendio si fa più ripido e pianto saldamente le punte frontali dei ramponi nel ghiaccio, mentre Fil accorcia la corda tra noi.
E ripartiamo, un passo dietro l'altro. Lentamente, ma ci muoviamo di nuovo.
Appena sopra il Sattel, la cresta sale, inizialmente nevosa e sempre più ripida, poi diventa rocciosa a un'altitudine di circa 4.500 metri, dove dobbiamo arrampicarci su rocce rotte.
Continuiamo lungo la cresta, navigando tra neve e terreno misto, finché raggiungiamo la pre-vetta. Qui, la cresta si restringe di nuovo, diventando rocciosa con blocchi e cenge.
Dopo aver scalato un ripido passaggio di roccia di II° a sinistra, lungo un debole canale che porta a una tacca, affrontiamo la parete rocciosa verticale finale. Per superarla, dovremo scalare un camino—anch'esso classificato II°—sempre alla sinistra della linea di cresta.
Fil va avanti, scalando il camino. È un atto di equilibrio, e lo guardo muoversi con grazia sulle punte frontali dei ramponi.
Poi tocca a me. Fil mi assicura dall'alto. Libero la corda dal moschettone a tre quarti del camino, recupero il rinvio e esco con successo.
I miei piedi atterrano sulla roccia della vetta accanto a Fil, con la terra e il cielo che si incontrano tutto intorno a noi.
Sdraiato nel mio comodo letto nel Rifugio Monte Rosa, sono le 15:00 e penso che esattamente dodici ore fa stavamo allacciando i ramponi sotto le stelle.
Ora, spero di riuscire a dormire un po'. Scalare così in alto, solo per tornare da dove siamo venuti.
Non si tratta di realizzare qualcosa; non si tratta di raccontare la storia di averlo fatto, perché in realtà, la montagna conta solo per coloro che vogliono che lo faccia.
Si tratta di volerla vivere di persona, sentirla in prima persona, perché certe sensazioni non possono essere trasmesse o ereditate dall'esperienza di qualcun altro; possono solo essere vissute.
Ripenso alla vetta, che definisce la montagna ai nostri occhi, e verso la quale siamo naturalmente attratti. Ma è sui pendii della montagna, sui suoi sentieri inizialmente, poi scalando le morene, il ghiacciaio, la roccia e la cresta, che la nostra salita si dispiega veramente.
Sulla vetta, in quei brevi momenti, non sono sicuro se il sentimento predominante sia la soddisfazione o la consapevolezza pragmatica che sei solo a metà del viaggio e ora devi tornare giù.
È una sensazione mista di profondo rispetto e, allo stesso tempo, un desiderio di fondersi con lo spazio che ci circonda, di dominare il vuoto dall'alto, forse nel tentativo di esorcizzarlo.
Sono contento di aver superato quella crisi, e grato a Fil per avermi aiutato a superarla.
Abbiamo raggiunto la vetta in sei ore, considerando che abbiamo passato almeno mezz'ora a vagare tra i crepacci cercando la via. Abbiamo fatto più che bene.
Guardo la Dent Blanche riempire l'orizzonte, incorniciata dal legno chiaro della finestra. Poi crollo in un sonno profondo e senza sogni.
Fuori dal Rifugio Monte Rosa, al crepuscolo, il rifugio sembra una nave spaziale brillantemente illuminata, attraversata dalla scala luminosa che sale a spirale dietro il vetro.
"Scale per il Paradiso," wow, se solo avessi qui la mia Gibson acustica—l'arpeggio introduttivo suonerebbe proprio bene.
Sulla terrazza, un alpinista riempie il suo thermos con tè caldo e poi si ferma, fissando il Dufour.
Lo scalerà domani—si capisce dal modo in cui lo guarda. Mi vedo in lui—io ero lui ieri.
Una ragazza tocca il suo telefono, i suoi capelli neri legati in una coda di cavallo. Mi sorride, ci salutiamo, e i suoi occhi sono scuri e profondi, in contrasto con la luminosità aperta del suo sorriso.
Non fa molto caldo, ma insiste per sedersi a piedi nudi su quella roccia. Ora anche lei è silenziosa: le sue dita non sono più motivate a danzare velocemente sulla tastiera. Domani scenderà nella valle, la sua destinazione si materializzerà nel profilo occidentale del Breithorn e del Cervino.
Dimentico la Gibson che non ho, e improvvisamente sono di nuovo immerso in questo silenzio. Lo sento—è mio.
Dall'esterno sembra lo stesso, ma è diverso dagli altri—dall'alpinista, dalla ragazza.
Penso che ogni persona sia anche un silenzio. Ognuno di noi, mentre cresce, impara a convivere con il proprio, ciascuno con il silenzio che ci definisce.
Il Dufour è illuminato dal tramonto. Si può vedere chiaramente il percorso, il Sattel, l'anticima, e la cresta frastagliata che sembra una scala che raggiunge le prime stelle della sera nel cielo.
Il vento ora soffia freddo, e la ragazza si alza e ritorna rapidamente al rifugio.
“C'è una signora che è sicura che tutto ciò che luccica sia oro. E sta comprando una scala per il paradiso.”
Questa mattina, nei primi raggi di sole, tutto brillava: i cristalli di ghiaccio nella neve, la punta della piccozza infilata sotto la cinghia del mio zaino, i frammenti di roccia accanto alla croce di vetta.
Tanti piccoli bagliori dove, per un momento, ho trovato rifugio, prima di alzare di nuovo lo sguardo per affrontare quell'orizzonte, così straordinariamente vasto e aperto.
di Andrea

Dufourspitze - Corda lunga


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